“Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato allo Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella misera e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.”
Queste le parole di Carlo Levi classe 1902, con cui aprirà “Cristo si è fermato ad Eboli“; questo il suo incipit, dal quale si evince la disperazione di un Meridione falcidiato dalla Guerra e dall’arretratezza culturale e morale dettata dal dolore; un Meridione negato dallo Stato e dalla stessa Storia.
“-Noi non siamo cristiani,- essi dicono,” prosegue l’autore, “-Cristo si è fermato ad Eboli-. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse più nulla che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto.”
Cristo è l’uomo, l’uomo civile, l’uomo che rappresenta quella civiltà che si ferma ad Eboli, dopo il nulla; l’uomo non è più uomo, ma bestia o peggio, ancora meno che bestia un “frusculicchio” un qualcosa a metà strada tra l’angelo ed il demone diverso dal cristiano e dal suo mondo che è al di là dell’orizzonte, che è al di là della civiltà.
“Cristo si è fermato ad Eboli“, può essere annoverato a buon ragione tra i classici della letteratura del Novecento; l’autore lo scrisse a Firenze, in una pensione di piazza Pitti frequentata da scrittori ed antifascisti, fra il Natale del 1943 ed il luglio del 1944, nel pieno della guerra e nei rischi della resistenza. Levi a Firenze ci approdò dopo una lunga militanza nei ranghi dell’antifascismo militante in Italia e in Francia, e con alle spalle un anno di soggiorno obbligato in un piccolo centro della Lucania, Aliano, che lui nel romanzo ribattezzerà Gagliano, dove entra per la prima volta in contatto con il mondo magico ed arcaico del Sud più arretrato e profondo.
Gagliano alias Aliano, è un agglomerato di case, uno scorcio di arte presepiale, costruito su precipizi franosi di argilla bianca, dove Cristo non è mai giunto e con esso nemmeno il messaggio cristiano. Cristo e di questo Levi ne è fin troppo consapevole si è fermato prima, molto prima, prima di quell’orizzonte cristiano che ha scientemente scelto di dimenticare una parte della sua storia. Lì resiste l’uomo che non è uomo, ma bestia da soma, il contadino devastato dalla malaria, dalla povertà e dalle faide di un potere miserabile e rapace che lo Stato e la Storia non riconosce.
Il tempo a Gagliano è fermo, statico, immobile nei secoli al cospetto del nulla e della morte; questa, la morte o per meglio dire il concetto di morte pervade tutto il romanzo e con esso il sentimento del dolore, il dolore di un’umanità che è rimasta relegata alle soglie della civiltà, nel limbo di un mondo arcaico e primitivo, una sorta questa d’infanzia dell’umanità.
“Cristo si è fermato ad Eboli è il più appassionante e crudele memoriale dei nostri paesi“, così lo definì Rocco Scotellaro poeta lucano e sindaco socialista di Tricarico. Lo Scotellaro non si allontana di molto dalla realtà, infatti anche se oggi la Lucania non è di certo più quella descritta da Carlo Levi, l’antropologia e la psicologia c’insegnano che le strutture profonde su cui si fonda la convivenza umana non seguono la rapidità di mutamento del corso superficiale della storia; infatti il primitivo o meglio l’arcaico rimane a lungo tenacemente in noi. Per questo “Cristo si è fermato ad Eboli” può essere considerato attuale ancora oggi, testo questo da analizzare profondamente proprio per i temi attualissimi che tratta e che sono preponderanti nella società dei consumi dei nostri giorni.
La questione meridionale che oggi si esplica nei concetti propri dell’Autonomia Differenziata non è altro che uno dei tasselli che ci raccontano della miserevole considerazione che si ha ancora oggi del Meridione e che il romanzo del Levi va a scandagliare in tutte le sue più crude ed amare sfaccettature. Lo stesso vale per i valori positivi e razionali della democrazia e dell’antifascismo della prima metà del Novecento a cui va attingere il Levi per la composizione storico, ideologica e politica del suo romanzo e che oggi diviene più che attuale nel quadro storico e culturale nazionale ed internazionale che sta caratterizzando il Ventunesimo secolo.
“Cristo si è fermato ad Eboli” è quindi allo stesso tempo un romanzo ed un saggio a cui il Levi da corpo unendo sapientemente pagine saggistiche con la narrazione vera e propria, dando vita ad un nuovo genere letterario composito dove l’armonia stilistica, figurativa e musicale si fondono sapientemente tra loro. Il successo del suo capolavoro si rileverà per Levi purtroppo unico ed irripetibile nonostante la numerosa produzione letteraria che ne seguì: “Paura della libertà” del 1939 che fu il primo libro da lui scritto considerato difficile ed irrisolto, “Le parole sono pietre” del 1955, “Il futuro ha un cuore antico” del 1956, “La doppia notte dei tigli” del 1959, “Tutto il miele è finito” del 1964, questi i suoi titoli più importanti alla scoperta di sé e degli altri, pretesti per divagazioni sui temi a lui più cari, come la civiltà contadina, i ricordi dell’infanzia, le fonti incontaminate del primitivo e dell’arcaico.
Purtroppo la società contadina si stava sfaldando e l’Italia scossa e sommossa dall’emigrazione interna e dall’industrializzazione vedeva sfumare il mito degli umili e dei diseredati del Sud per cedere il passo ai nuovi miti delle metropoli industrializzate e della società dei consumi propri della nuova società operaria nascente. Fu così che la mirabile opera del Levi non trovò più la giusta sintonia con le ragioni del tempo nuovo caratterizzato dalle classi operaie che andavano soppiantando quella contadina, lasciando così il suo primo e grande libro come unica e pregevole testimonianza di una società contadina al tramonto.
Carlo Levi muore il 4 gennaio 1975; l’anno precedente nel 1974 già colpito da una grave malattia agli occhi pubblica “Quaderno a cancelli” drammatico diario di un pittore cui è negata la visione della realtà esterna. Levi infatti, di origini ebraiche anche se di un ebraismo rigorosamente laico, fu pittore apprezzato e stimato; si ricorda che la prima edizione del 1945 di “Cristo si è fermato ad Eboli” recava l’immagine di un suo quadro, la testa di un bambino accostata al teschio di un capretto. Le sue spoglie riposano ancora oggi ad Aliano in Lucania dove fu confinato politico dal 1935 al 1936.