“I mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andato avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no …”
Queste le parole di Dino Buzzati, classe 1906, sulle origini del suo più grande romanzo “Il deserto dei Tartari“; sembra infatti che l’origine del romanzo sia proprio da ricercare per sua esplicita ammissione, nel particolarissimo clima “pesante e monotono” della redazione giornalistica del Corriere della Sera.
Assunto infatti, al “Corriere” nel 1928, in qualità di cronista e critico musicale avverte come opprimente ed asfissiante quella redazione giornalistica nella quale lavora in cerca del giusto riconoscimento; da lì il tema “dell’attesa” che prenderà corpo magistralmente nel “Il deserto dei Tartari” e che come probabilmente è stato ipotizzato sarà dovuto anche e soprattutto al clima poco rassicurante della seconda metà degli anni Trenta nonché dalle sollecitazioni professionali che lo portarono a meditare su quel tema che come “una macchina” macina e tritura le speranze degli uomini.
La produzione di Buzzati è ampia, nel 1933 pubblica “Barnabo delle montagne”, nel 1935 “Il segreto del Bosco Vecchio”, nel 1942 “I sette messaggeri”, nel 1945 “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” e “Il libro delle pipe”, nel 1954 oramai firma prestigiosa del “Corriere” pubblica “Il crollo della Baliverna”, nel 1958 “Esperimento di magia”, nel 1960 “Il grande ritratto”, nel 1963 “Un amore”, nel 1966 “Il colombre”, nel 1969 “Poema a fumetti” che si aggiudica il premio “Paese sera”, nel 1971 “I miracoli della Val Morel” a seguire postumo nel 1985 “Lettere a Brambilla”.
Dino Buzzati infatti, ci lascerà il 28 gennaio 1972 a Milano, avendo inseguito il sogno “delle attese” nelle sue più ampie sfaccettature.
Ma veniamo a noi.
“Il deserto dei Tartati” viene consegnato per la stampa dal Buzzati nel 1939 prima di partire come corrispondente di guerra, sarà poi pubblicato l’anno successivo nella collana di Rizzoli “Sofà della Muse” mentre lo scrittore è richiamato in Marina. Il romanzo dapprima passato sotto silenzio, avrà un notevole successo tanto da prevedere una seconda edizione nel 1945.
Il romanzo si presenta nelle sue principali caratteristiche sin dalle prime righe, non ci sono connotazioni geografiche e temporali, infatti la stessa “Fortezza Bastiani” è un luogo inesistente, magico ed opprimente come quello della redazione del “Corriere“. Il giovane tenente Drogo è già ad una prima parziale resa dei conti con il destino che si è prefigurato “era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vita vera“, come un’inquietante interrogativo “un insistente pensiero … come vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno“.
Il viaggio è infatti senza ritorno, anche se Drogo più volte tornerà alla sua casa, ma il suo destino è oramai segnato dalla “Fortezza Bastiani“, edificio inospitale, prigione e reggia ma soprattutto simbolo della rinuncia.
E’ l’attesa di un’azione che si svolge in una grigia atmosfera metafisica, fatta di deserti, dirupi ed una scansione del tempo particolarissima una sorta di stillicidio come il flaccido suono della cisterna o del pendolo del colonnello che pesano come gli anni che scorrono inesorabili.
In quel clima soffocante ed avvolgente si snodano le figure del romanzo, tutte ammalate di attesa, un’attesa che non arriva a riscattare le loro vite.
Lì galleggiano come sospese quelle figure: il colonnello “che ha studiato le carte … dice che ci sono ancora i Tartati“, il capitano Ortiz secondo il quale “la frontiere è sempre frontiera e non si sa mai” ed il sarto Prosdocimo. E con loro Drogo che rimane impigliato come in una rete in questo clima eroico e mediocre, ci rimane impigliato sino alla fine, fino alla morte, solitaria e dignitosa, a suo modo grande, dove il vecchio ufficiale assapora finalmente la sua vittoria, “raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto … poi, benché nessuno lo vede, sorride“.